Il 24 giugno infatti è la festa di San Giovanni Battista, ma tradizionalmente i festeggiamenti, in un misto di sacro e profano, avevano inizio già durante la vigilia, a partire dal tramonto del sole e proseguendo per tutta la notte: la notte delle Streghe.
Si racconta infatti che le streghe, recandosi a Benevento per il tradizionale sabba sotto il famoso noce, fossero solite fermarsi a Roma per raccogliere proprio tra i prati del Laterano alcune particolari erbe sbocciate in quella notte e necessarie ai loro incantesimi. Tra queste erbe legate alla Notte di San Giovanni una particolare importanza rivestivano l’iperico, detto anche erba di San Giovanni, l’artemisia, o assenzio volgare, dedicata alla dea Diana-Artemide, la verbena e il ribes rosso.
Durante la Notte di San Giovanni le Streghe, andando in giro, erano solite catturare le anime che incontravano sul loro percorso, e per poterle osservare senza correre pericoli erano quindi necessari alcuni accorgimenti: tenere in mano una testa d’aglio e una scopetta erano sicuramente scaramanzie indispensabili, insieme alla celebre “spighetta” (cioè una spiga di lavanda) e al tradizionale “garofoletto” (garofano).
Nella Notte delle Streghe, da tutti i Rioni le persone si riversavano intorno alla Basilica di San Giovanni e a quella di Santa Croce in Gerusalemme. Le osterie che si trovavano in zona (la piú famosa era Faccia Fresca), insieme alle baracche e ai tendoni che spuntavano per l’occasione, facevano affari d’oro servendo le tradizionali lumache, servite con un sugo di aglio, olio, alici, pomodoro e peperoncino. L’uso di consumare le lumache aveva un significato particolare: le corna infatti, per il loro essere divergenti, rappresentavano le discordie e le contrarietà (solo in un periodo successivo presero a simboleggiare il tradimento), e mangiarle con gli altri equivaleva a seppellire nello stomaco tutti i contrasti, i dissapori e le preoccupazioni accumulati durante l’anno, per giungere quindi alla riconciliazione, distruggendo le avversità.
Durante la festa si provvedeva a illuminare ogni cosa con tutti i mezzi possibili, dalle candele di sego alle torcie a vento, fino ai grandi falò accesi tra Santa Croce e San Giovanni (i famosi falò di San Giovanni), mentre d’obbligo era anche fare rumore con trombe, trombette, campanacci, tamburelli e petardi: il fine, ovviamente, era sempre quello di spaventare e allontanare le Streghe (con la luce e i rumori) impedendo loro di raccogliere le pericolose erbe.
Per evitare che le Streghe di passaggio entrassero nelle case mentre si era alla festa, si usava invece questo particolare stratagemma: sull’uscio, uscendo, si rovesciava una manciata di sale grosso e si appoggiava alla porta una scopa di saggina (o due scope incrociate, secondo una versione ancora più prudente!): le Streghe, malefiche ma anche curiose, si sarebbero fermate a contare i grani di sale e i fili di saggina, rimanendo cosí impegnate fino a che non fosse spuntato il sole a farle fuggire. E per sicurezza anche il camino veniva chiuso con un setaccio.
Una consolidata tradizione riconosce in due delle streghe nientemeno che Erodiade e Salomé, coloro che convinsero Erode Antipa a far decapitare il Battista; per questo sarebbero state condannate a vagare per il mondo su una scopa, chiamando le altre Streghe presso il Laterano proprio in occasione cella commemorazione del Santo.
L’inizio della festa, fino al 1870, era segnalato, al tramonto, dalle artiglierie di Castel Sant’Angelo, che sparando a salve e in modo festoso segnalavano ai Romani che era giunto il momento di recarsi verso i prati che, all’epoca, caratterizzavano la zona intorno alla Basilica.
La notte di San Giovanni aveva poi anche un importante ruolo “sociale”, in quanto era un momento perfetto di incontro e un’occasione, per le giovani coppie aiutate dalla confusione e dal buio, per passare un po’ di tempo insieme, romanticamente stesi sull’erba. Generalmente l’area intorno alla Basilica di Santa Croce era quella prescelta per questi piccoli idilli. Questa notte poi, scambiarsi fiori tra persone di sesso diverso assumeva un’importanza e un significato assoluti, creando un vincolo eterno, quello del comparato o comparatico (anche se in qualche caso il rapporto prendeva una piega meno platonica…), tramite il quale tra il compare e la comare veniva sancito ufficialmente un rapporto di fiducia reciproca.
La conclusione della festa, le cui origini hanno radici lontanissime, da ricercarsi in antichi riti legati al Solstizio e praticati per l’inizio dell’estate (a cui poi il cristianesimo sovrappose, come era consuetudine, la festività religiosa cristiana), si aveva la mattina del 24, quando all’alba il papa, annunciato da altri colpi di cannone, giungeva “in treno di mezza gala” a celebrare la messa nella Basilica di San Giovanni, e non prima che, secondo la tradizione, avesse elargito dalla Loggia, gettandole tra la folla scatenata, monete d’oro e d’argento alla popolazione.
Tutta nottata era ovviamente scandita da musica, canti, balli e improvvisazioni canore, con tarantelle, saltarelli, stornelli a volontà, finché nel 1891 non si arrivó ad organizzare un vero e proprio concorso della “canzonetta romana” , che divenne subito molto popolare: il primo anno, in pieno tema con la serata, a vincere fu “Le streghe” (clicca per ascoltare), con versi di Nino Ilari, musica di Alipio Calzelli e interpretata da un esordiente Leopoldo Fregoli. Altre magnifiche canzoni presentate al concorso furono, solo per citare qualche esempio, “Nina si voi dormite” (1901), “Barcarolo Romano” (1926) e “Affaccete Nunziata” (1893).
Fino alla Prima Guerra Mondiale la manifestazione continuò, raccogliendo sempre un grande consenso. Tra le due guerre riprese, ma come festa del Dopolavoro; successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, si è tentato più volte di riportala all’antico splendore, ma sempre senza ottenere i risultati sperati: ormai la festa sembra non riuscire a ritrovare la poesia, la meraviglia e l’entusiasmo che la caratterizzavano.
Godiamoci insieme la narrazione che di questa notte particolarmente amata dai Romani ci ha lasciato Giggi Zanazzo (poeta dialettale di fine Ottocento – inizi Novecento e grande studioso delle tradizioni del popolo romano):
“La viggija de San Giuvanni, s’ausa la notte d’annà come sapete, a San Giuvanni Latterano a pregà er Santo e a magnà le lumache in de l’osterie e in de le baracche che se fanno appositamente pe’ quela notte. For de la Porta, verso la salita de li Spiriti, c’era parecchi anni fa, l’osteria de le Streghe, indove quela notte ce s’annava a cena. A tempo mio, veramente, nun se faceva tutta ‘sta gran babbilogna che se fa adesso. Ce s’annava co le torce accese e co’ le lanterne, perché era scuro scuro, allora, pe’ divuzzione davero e pe’ vedè le streghe. Come se faceva pe’ vederle? Uno se portava un bastone fatto in cima a furcina [cioè biforcuto n.d.r.], e quanno stava sur posto, metteva er barbozzo [mento] drento a la furcina, e in quer modo poteva vedè benissimo tutte le streghe che passaveno laggiù verso Santa Croce in Gerusalemme, e verso la salita de li Spiriti. Pe’ scongiuralle, bastava de tienè in mano uno scopijo [scopetta di saggina], un capodajo e la spighetta cor garofoletto. S’intenne che prima d’uscì da casa, de fora de la porta, ce se metteva la scopa e er barattolo der sale. Accusì si una strega ce voleva entrà nu’ lo poteva, si prima che sonasse mezzanotte nun contava tutti li zeppi de la scopa e tutte le vaghe der sale. Cosa che benanche strega, nun je poteva ariuscì; perchè, si se sbajava a contà, aveva d’aricomincià da capo. Pe’ nun faccele poi avvicinà pe’ gnente, bastava mette su la porta de casa du’ scope messe in croce. Come la strega vedeva la croce, er fugge je serviva pe’ companatico! Presempio, chi aveva pavura [paura] che la strega j’entrassi a casa da la cappa der cammino [camino], metteva le molle e la paletta in croce puro là, oppuramente l’atturava cor setaccio de la farina.
Un passo addietro. Er giorno se mannava in parocchia a pijà una boccia d’acqua santa fatta da poco, perché l’acqua santa stantìa nun è piú bona; e prima d’uscì da casa o d’annassene a letto, ce se benediveno li letti, la porta de casa e la casa. Prima d’addormisse se diceva er doppio credo, ossia ogni parola der credo si repricava du’ vorte: io credo, io credo, in Dio padre, in Dio padre, ecc., e accusì puro se faceva de l’antre orazzioni. Nun c’è antra cosa come er doppio credo pe’ tienè lontane le streghe! Ammalappena, poi se faceva ggiorno, er cannone de Castel Sant’Angelo, che aveva incominciato a sparà da la viggija, sparava diversi antri colpi, e allora er Papa, in carozza de gala, accompagnato da li cardinali e dar Senatore de Roma, annava a pontificà, ossia a di’ mmessa in de la chiesa. Detta messa, montava su la loggia che dà su la piazza de San Giuvanni Latterano, dava la benedizzione e poi buttava una manciata de monete d’oro e d’argento. Quando er giorno de San Giuvanni sorge er sole, s’arza ballando. A tempo mio, er giorno de San Giuvanni, usava de fa’ un pranzo fra li parenti, ossia fra compari e commari pe’ fa’ in modo che si c’era un po’ de ruggine fra di loro s’arifacesse pace co’ ‘na bona magnata de lumache” (Giggi Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma).
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