Sai che a Roma… se fai una passeggiata al Ghetto, attorno alle rovine del Portico di Ottavia, potresti incontrare il fantasma di Berenice?
Percorrendo via del Portico di Ottavia, giunto in largo 16 ottobre 1943,ti troverai di fronte alcuni imponenti resti archeologici: si tratta della Porticus Octaviae, che l’imperatore Augusto fece erigere in onore di sua sorella Ottavia tra il 33 e il 23 a.C.
Nell’area, già dal II secolo a.C. esistevano due antichi templi, dedicati a Giunone Regina e a Giove Statore e racchiusi nella Porticus Metelli. Quest’ultima fu completamente rimpiazzata dalla costruzione augustea.
Settimio Severo e Caracalla (come ricorda anche l’iscrizione sull’architrave) ricostruirono al loro volta l’edificio. La parte che oggi puoi vedere è l’atrio centrale da cui si accedeva al portico, un tempo rivestito di marmo.
Tra le colonne che sostengono il timpano, noterai che è presente un arco in mattoni: quest’arco è di epoca medievale, quando tra le colonne della Porticus si svolgeva il mercato del pesce più famoso della città, tanto che la stessa chiesa di S. Angelo, che si intravede dietro le colonne, era detta di S. Angelo in Pescheria (nella chiesa, la Cappella del Sacramento ospita un dipinto del Vasari).
La presenza di un mercato del pesce in questo luogo non è casuale, del resto, se consideri che il porto di Ripetta, uno dei più importanti del Tevere, era proprio qui vicino! Adesso guarda bene la targa che si trova tra i laterizi che chiudono lo spazio tra le colonne: c’è scritto che tutte le teste di quei pesci che avessero superato la lunghezza della targa, dovevano essere consegnate ai Conservatori della città (una specie di sindaci dell’epoca…). La testa era infatti una delle parti più pregiate, con cui si insaporivano (e si insaporiscono tutt’oggi…) le zuppe di pesce, e questa stana imposizione era molto semplicemente una forma di tassazione!
Prima di parlare del Fantasma di Berenice, però, vogliamo ricordarti un’altra cosa! Guarda bene l’area e lo spazio tra le colonne… non ti viene in mente nulla?
E se ti dicessimo di pensare al film “Un Americano a Roma”, con l’indimenticabile Alberto Sordi? Esatto! La scena in cui lui fa il gangster fingendo di sparare al metronotte con le dita! “E sto a scherza’… So’ scariche!” 🙂 Il posto è proprio questo!
Ma Alberto Sordi non è l’unico ad aver scelto questa zona come… set!
Ad aggirarsi per il dedalo di vicoletti del Ghetto, tra le rovine del Portico d’Ottavia e l’area antistante il Teatro di Marcello (e sappi che Marcello era il figlio di Ottavia, quindi nipote di Augusto…) c’è anche la bellissima Berenice, o meglio, il suo fantasma.
Berenice era la bellissima figlia di Erode Agrippa, detto il Grande. Nell I secolo d.C. la donna, sui cui trascorsi amorosi circolavano voci non troppo lusinghiere, intraprese un’intensa storia d’amore con il futuro imperatore Tito; quest’ultimo era stato mandato in Terra Santa da suo padre, Vespasiano, per sedare alcune rivolte. Tito rase al suolo Gerusalemme e nel 71 d.C. tornò a Roma vittorioso (proprio a questo trionfo fa riferimento l’Arco di Tito nel Foro Romano), portando con sé, al suo fianco, la bella ebrea.
Fin qui, nulla di strano. Anzi, la “preda amorosa” ben si addice a un valoroso condottiero, e considerata la bellezza della donna, poco importa che sia di 21 anni più grande del futuro imperatore. Il problema nasce quando Vespasiano capisce che Tito, quella donna, ha intenzione di sposarla…!
Introdurre un’estranea nella linea di successione imperiale non è ammissibile, tanto più se ebrea! Le discussioni tra Tito e il padre continuano, il tempo passa, e alla fine Vespasiano muore. A quel punto Tito, forse per onorarne la memoria, forse perché ormai stanco di quella storia storia travagliata, si decide ad allontanare da Roma Berenice.
Il fantasma della donna, secondo la leggenda, continua a vagare intorno al Portico d’Ottavia, luogo da cui, nel 71 d.C. partì la processione trionfale che celebrava il successo militare del “suo” Tito. E sembra che lo spettro, afflitto e sconsolato, continui a ripetere “Ecco, per questo potere, ormai ridotto in rovina, tu mi hai sacrificata…!”
N.B.: attualmente i resti del portico sono coperti dalle impalcature per i restauri… (impalcature parzialmente rimosse a dicembre 2016)
Sai che a Roma… Er conte Tacchia era un popolare personaggio dei primi del Novecento?
Il suo vero nome era Adriano e nacque nel 1860 in una casa in piazza dell’Orogio di proprietà di Filippo Bennicelli. La famiglia era diventata piuttosto agiata grazie al commercio del legname. Per questo Adriano, che aveva un atteggiamento eccentrico, scanzonato e da gran signore, fu soprannominato “er conte Tacchia” (infatti a Roma TACCHIA significa scheggia di legno).
Sempre elegantissimo, con tight, bombetta e guanti bianchi, il conte TACCHIA girava per Roma in carrozzella, pretendendo strada da tutti e dispensando a chi lo intralciava parolacce e scapaccioni. Il Conte è il simbolo della città umbertina, tutta volta all‘apparenza e allo snobismo. Egli però, per la sua franchezza e generosità e per il suo spirito sempre volto al divertimento e alla battuta, fu molto amato dai romani. Morí il 21 dicembre 1925.
Alla sua figura si ispira un noto film di Sergio Corbucci (1982), “il conte Tacchia” (qui però il nome del conte è Francesco – Checco Puricelli), con Enrico Montesano, Vittorio Gassman e Paolo Panelli.
Sai che a Roma… nella tradizione del Carnevale Romano, il giorno di martedì grasso i festeggiamenti di via del Corso si chiudevano con la Battaglia dei Moccoletti?
I Moccoletti erano delle candele accese, con intorno un piccolo cono di carta che ne riparava la fiamma. Nel corso della battaglia bisognava riuscire a spegnere i moccoli degli altri, evitando che qualcuno spegnesse il proprio. Lo sventurato che si faceva spegnere la candela, doveva subire ingiurie e prese in giro di ogni tipo senza poter replicare.
Il grande Giggi Zanazzo, nel suo “Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma” (1908) non avrebbe potuto non parlare di questa popolarissima festa e descrive la Battaglia dei Moccoletti con queste parole:
“L’urtimo ggiorno de Carnovale ammalappena sonava l’Avemmaria (anticamente sparava puro er cannone), tutti quelli che sse trovaveno p’er Corso, sii a ppiede, sii in carozza, sii a ccavallo, sii a le finestre, accennéveno li moccoletti.
Poi co’ le svèntole, co’ li mazzettacci de fiori, o co’ le cappellate, ognuno cercava de smorza’ er moccolo all’antro, dicènno: – Er móccolo e ssenza er móccolo!-
Avevi voja, pe’ ssarvallo, de ficcallo in cima a una canna o a un bastone, o a fficcatte in un portone! Era inutile. Tutti te daveno addosso; e o ccor un soffietto, o ccor una svèntola o cco’ ’na manata o ’na mazzettata te lo smorzaveno in ogni modo, urlanno: – Er móccolo e ssenza er móccolo; abbasso er móccolo!”.
Sai che a Roma… oggi vogliamo parlarti della basilica di San Clemente?
E’ il rione Monti a godere del privilegio di ospitare quella che può essere definita una chiesa-palinsesto. A San Clemente è facile capire come tutta la città di Roma sia pluristratificata, di come essa abbia continuato, nei secoli, a rinascere su se stessa, lasciando sotto i nuovi edifici quelli vecchi, pronti a raccontare agli archeologi delle storie incredibili.
La chiesa risale al XII secolo, quando papa Pasquale II (1050 – 1118) la ricostruì utilizzando molti materiali di un precedente edificio (la cosiddetta basilica inferiore) risalente al IV secolo e a sua volta impostato su costruzioni romane di I-II secolo e su un tempio del dio Mitra. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata, per esempio, ai plutei marmorei della schola cantorum, databili al VI secolo. Ad epoche successive sono riferibili invece numerosi elementi dell’interno, nonché la facciata sobriamente barocca (sì, in alcuni casi il barocco può essere sobrio…!)
Non è nostra intenzione, in questa sede, fare una descrizione dettagliata della chiesa, pur di indiscusso pregio artistico, perché, quello di cui, ancora una volta, vogliamo parlarti, è una piccola-grande curiosità! Nell’attraversare l’aula, però, di sicuro noterai lo splendido pavimento cosmatesco , il ciborio medievale che sovrasta l’altare maggiore, il mosaico absidale con il Trionfo della Croce (raro esempio di scuola romana della prima metà del XII secolo) e, affacciandoti nella cappella di Santa Caterina, gli affreschi di Masolino da Panicale e Masaccio.
Ora però scendiamo nella cosiddetta chiesa inferiore (IV secolo), dove la decorazione ad affresco risalente al tardo IX secolo racconta in modo molto originale la storia di Sisinnio, Teodora e Clemente, quarto papa della storia (88 – 97 d.C.), nonché personaggio al quale la basilica è dedicata.
Sisinnio era un ricco prefetto romano che non aveva preso troppo bene l’adesione della sua bella moglie, Teodora, al cattolicesimo. Del resto, Sisinnio va anche capito, perché, stando a quanto racconta la leggenda, dopo la conversione Teodora si era votata alla totale castità… Un giorno la sua signora si intestardì a voler partecipare a una funzione di Clemente, che all’epoca era patriarca (diventerà papa in seguito), e il prefetto, uomo piuttosto potente, esasperato dalla situazione e stizzito da tanta insistenza, decise di far arrestare Clemente. La punizione divina non tardò ad arrivare: Sisinnio, che si era lasciato accecare dall’odio per i cristiani, divenne immediatamente cieco e sordo, dovendo così rinunciare al suo piano. Successivamente, Clemente, uomo compassionevole, si impietosì, decidendo di recarsi da Sisinnio e di guarirlo. Giunto al palazzo di questi però si trovò di fronte un Sisinnio ancora adirato, che vuole vuole farlo cacciare. Non sappiamo se fu a causa della cecità o magari per effetto di un nuovo, provvidenziale intervento divino, fatto sta che Sisinnio si trovò ad impartire un ordine piuttosto bizzarro: anziché far buttare fuori Clemente, ordinò ai suoi servi di incatenare e trascinare via una pesantissima colonna.
Sulle pareti della basilica inferiore di San Clemente, questa scena viene raffigurata in forma di vero e proprio fumetto, con i dialoghi riportati vicino alle teste dei personaggi stessi. E di fronte ai servi che, alle prese con la colonna, si trovano palesemente in difficoltà, Sisinnio, ormai furioso, impreca e grida (e sembra quasi di poterlo sentire…) “Traite, fili de le pute” (tirate, figli di puttana!), mentre Clemente se ne va liberamente, impartendo benedizioni. Mentre leggi queste parole, ricordati anche sei di fronte a uno dei primi esempi in assoluto di volgare italiano.
E così, sottoterra e di fronte a questa antica raffigurazione, non puoi far a mento di riflettere su come i sentimenti, le emozioni e le reazioni umane siano sempre le stesse: l’assurda e inutile frustrazione per non poter controllare la propria donna, l’insicurezza malcelata dietro il tentativo di voler attribuire ad altri la responsabilità una situazione non gradita, l’arroganza nel tentativo di usare una posizione privilegiata e di supremazia per fini personali, e infine la rabbia, scomposta e inutile, sfogata su qualcuno che, a ben guardare, è estraneo a tutta la vicenda…
E pensare che c’è gente che crede che la Storia non sia attuale! Mah…
Sai che a Roma… alle Idi di marzo del 44 a.C., con 23 (ven-ti-trè!) pugnalate, venne ucciso Giulio Cesare?
Il giorno delle Idi di marzo coincide con il nostro 15 marzo e dal 2004, in questa data, una rievocazione storica a cura del Gruppo Storico Romano ricorda lo storico avvenimento, avvenuto presso la Curia di Pompeo, nell’attuale Area Sacra di Largo Argentina.
Tre scene si susseguono in un’atmosfera sempre più carica di tensione. Si comincia con il Senato riunito alla presenza di Marco Antonio, Catone, Cicerone e tribuni della plebe. Nel corso della riunione, Cesare viene dichiarato nemico pubblico di Roma.
Quindi arriva Cesare. Nonostante l’aruspice Spurinna lo avesse esortato a fare attenzione alle Idi di Marzo, per il generale non c’è nulla da fare. Ventitrè coltellate mettono tragicamente fine alla sua avventura politica e militare. Ad eliminarlo, un gruppo di congiurati capeggiati proprio da Bruto, figlio adottivo del dictator. Con l’assassinio di Cesare termina l’esperienza repubblicana di Roma Antica.
Nell’ultima scena, il discorso di Bruto e il funerale al Foro Romano, con l’orazione di Marco Antonio che tanta passione ha ispirato a Shakespeare per il suo Giulio Cesare.
A seguire, un corteo funebre raggiungerà la statua di Giulio Cesare per deporre ai suoi piedi una corona di alloro.
ELIVEROMATV (canale 71) trasmtterà l’evento in diretta tv.
Quest’anno (2017), causa lavori, lo spettacolo si terrà nelle immediate vicinanze dell’Area Sacra.
Rigorosamente in abiti storici e con una straordinaria attenzione per la corretta ricostruzione storica e filologica, l’uccisione di Cesare alle Idi di marzo verrà rappresentata per due volte: alle 15.00 e alle 16.00.
L’ingresso è libero e gratuito.
Quando: mercoledì 15 marzo 2017
Dove: Largo di Torre Argentina, ore 15.00 e ore 16.00
Nel video qui sotto trovi un approfondimento sulle idi di marzo, ovvero il primo incontro del ciclo “Luce sull’archeologia” del 2015 al Teatro Argentina, con il prof. Filippo Coarelli e la dott.ssa Marina Mattei.
Sai che a Roma… un antico proverbio insegna come essere più scaltri nel valutare alcune affermazioni?
Il proverbio suona più o meno così: Quatrini e santità, metà pe la metà. Significa che è opportuno non dare troppo retta a chi si vanta delle proprie ricchezze e le ostenta, perché spesso dietro questo atteggiamento si nasconde solo un insano desiderio di ammirazione e di invidia. Allo stesso modo, è bene diffidare anche alle persone alle quali la credulità popolare attribuisce qualità eccezionali, perché la gente è sempre portata ad esagerare , e a trovarsi davanti la persona tanto decantata, c’è il rischio di restare piuttosto delusi…
Quindi, se vuoi evitare spiacevoli sorprese, ridimensiona quello che ti viene detto e prendi per buona solo la metà della metà! 😉
Se vuoi conoscere altri modi di dire legati alla tradizione romanesca, clicca qui!
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