L’incendio neroniano del 64 d.C. 18 – 19 luglio

incendio neronianoSai che a Roma… nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C. un incendio sviluppatosi nella zona del Circo Massimo distruggeva buona parte della città?

Quello che passò alla storia come l’incendio neroniano, tra i più catastrofici incendi che Roma ricordi, divampò per ben 9 giorni. Roma a quel tempo contava circa un milione di abitanti; le vittime furono migliaia e circa 200.000 persone rimasero senza casa.

Tacito ce lo racconta con queste parole: “Sequitur clades, forte an dolo principis incertum (nam utrumque auctores prodidere)”  “Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso oppure al dolo del principe (poiché gli storici interpretarono la cosa nell’uno e nell’altro modo)” (Annales XV, 38-1).
Le accuse caddero subito su Nerone, il quale, pur trovandosi quella notte nella sua villa al mare ad Anzio, fu ritenuto da molti responsabile. Inoltre si era diffusa la voce che mentre Roma bruciava, Nerone dal suo palazzo cantava un brano sulla “Caduta di Troia”.

In realtà lo stesso imperatore prese una serie di provvedimenti per arrestare il divampare delle fiamme e per ospitare gli sfollati. Anche la storiografia recente tende a rivalutare la figura di Nerone, scagionandolo dalle accuse degli antichi. Nerone a sua volta tentò di allontanare i sospetti dalla sua persona scaricando la responsabilità dell’incendio sui seguaci del cristianesimo, già non molto popolari, dando inizio ad una crudele e sistematica persecuzione nei loro confronti.

In questo stesso anno (o forse secondo altre fonti nel 67 d.C.) Pietro venne arrestato e martirizzato presso il circo neroniano, proprio nello stesso luogo dove oggi si trova la basilica di S. Pietro.

Marforio e il “Congresso degli Arguti”

MarforioSai che a Roma… Marforio è una delle statue parlanti della città?

Le statue parlanti di Roma sono sei. Su di esse i romani, fin dall’inizio del XVI secolo (e saltuariamente ancora oggi), hanno affisso brevi satire politiche, dette pasquinate dal nome di una delle statue (Pasquino). Con Marforio e Pasquino, a formare il cosiddetto “Congresso degli Arguti” ci sono Madama Lucrezia, l’Abate Luigi, il Facchino e il Babuino.

Marforio è in realtà una grande statua romana risalente al I secolo d.C. che raffigura un uomo barbuto disteso su un fianco e variamente identificato come Oceano, il Tevere, Giove o Nettuno. Oggi puoi ammirarlo nel cortile di Palazzo Nuovo, al Campidoglio, ma in origine la statua fu trovata nel Foro di Augusto, presso il Tempio di Marte Ultore, area che nel Medioevo era chiamata Martis Forum. Fino al 1588 Marforio rimase vicino al Carcere Mamertino , poi Sisto V fece spostare la statua lungo il muro di sostegno dell’Aracoeli, impiegandola come decorazione di una fontana. Infine nel 1679, quando il Palazzo Nuovo fu terminato, la scultura fu collocato nell’attuale posizione, sempre a decorare una fontana.

L’origine del nome è incerta, ma deriva probabilmente dalla storpiatura del nome del luogo di ritrovamento: da Martis Fori a Marforio il passo è breve! Alcuni però pensano anche che il nome possa riferirsi alla famiglia dei Marfoli, che aveva alcune proprietà proprio nei pressi del Carcere Mamertino, o ancora che sia riconducibile a una iscrizione un tempo presente sul basamento e che avrebbe recitato “Mare in Foro“, indicando sia il soggetto marino raffigurato che la provenienza della scultura.

Marforio e Pasquino dialogavano spesso tra loro, creando sagaci e taglienti “botta e risposta”: Marforio, con le sue domande, serviva a Pasquino l’assist per le sue argute risposte. Celebre è l’invettiva contro Napoleone, reo di aver saccheggiato numerosissime opere d’arte della città. Alla domanda di Marforio se i francesi fossero tutti ladri, Pasquino rispose prontamente “Tutti no, ma Bona Parte!”.

Per tentare di mettere a tacere Marforio, fu nominato addirittura un “Custode della fonte”, ovvero il nobile Prospero Jacobacci, che per evitare che nottetempo i romani esponessero sulla statua nuove satire ed epigrammi fu retribuito con “quattrocento libbre di cera bianca, dodici di pepe, una scatola bianca di pignolato, otto libbre di nocchiate, sedici di confetti in quattro scatole dipinte, quattro fiaschi di vino, trenta paia di guanti e un rubbio e quattro scorzi di sale”.

Oggi Marforio ha trovato nuova notorietà anche grazie al fatto di essere apparso alle spalle di Gep Gambardella nella locandina del film premio Oscar “La grande Bellezza“.

La Notte delle Streghe (San Giovanni) – tra il 23 e il 24 giugno

notte delle stregheSai che a Roma… si avvicina la notte delle Streghe?
Il 24 giugno infatti è la festa di San Giovanni Battista, ma tradizionalmente i festeggiamenti, in un misto di sacro e profano, avevano inizio già durante la vigilia, a partire dal tramonto del sole e proseguendo per tutta la notte: la notte delle Streghe.

Si racconta infatti che le streghe, recandosi a Benevento per il tradizionale sabba sotto il famoso noce, fossero solite fermarsi a Roma per raccogliere proprio tra i prati del Laterano alcune particolari erbe sbocciate in quella notte e necessarie ai loro incantesimi. Tra queste erbe legate alla Notte di San Giovanni una particolare importanza rivestivano l’iperico, detto anche erba di San Giovanni, l’artemisia, o assenzio volgare, dedicata alla dea Diana-Artemide, la verbena e il ribes rosso.

Durante la Notte di San Giovanni le Streghe, andando in giro, erano solite catturare le anime che incontravano sul loro percorso, e per poterle osservare senza correre pericoli erano quindi necessari alcuni accorgimenti: tenere in mano una testa d’aglio e una scopetta erano sicuramente scaramanzie indispensabili, insieme alla celebre “spighetta” (cioè una spiga di lavanda) e al tradizionale “garofoletto” (garofano).

Nella Notte delle Streghe, da tutti i Rioni le persone si riversavano intorno alla Basilica di San Giovanni e a quella di Santa Croce in Gerusalemme. Le osterie che si trovavano in zona (la piú famosa era Faccia Fresca), insieme alle baracche e ai tendoni che spuntavano per l’occasione, facevano affari d’oro servendo le tradizionali lumache, servite con un sugo di aglio, olio, alici, pomodoro e peperoncino. L’uso di consumare le lumache aveva un significato particolare: le corna infatti, per il loro essere divergenti, rappresentavano le discordie e le contrarietà (solo in un periodo successivo presero a simboleggiare il tradimento), e mangiarle con gli altri equivaleva a seppellire nello stomaco tutti i contrasti, i dissapori e le preoccupazioni accumulati durante l’anno, per giungere quindi alla riconciliazione, distruggendo le avversità.
Durante la festa si provvedeva a illuminare ogni cosa con tutti i mezzi possibili, dalle candele di sego alle torcie a vento, fino ai grandi falò accesi tra Santa Croce e San Giovanni (i famosi falò di San Giovanni), mentre d’obbligo era anche fare rumore con trombe, trombette, campanacci, tamburelli e petardi: il fine, ovviamente, era sempre quello di spaventare e allontanare le Streghe (con la luce e i rumori) impedendo loro di raccogliere le pericolose erbe.

Per evitare che le Streghe di passaggio entrassero nelle case mentre si era alla festa, si usava invece questo particolare stratagemma: sull’uscio, uscendo, si rovesciava una manciata di sale grosso e si appoggiava alla porta una scopa di saggina (o due scope incrociate, secondo una versione ancora più prudente!): le Streghe, malefiche ma anche curiose, si sarebbero fermate a contare i grani di sale e i fili di saggina, rimanendo cosí impegnate fino a che non fosse spuntato il sole a farle fuggire. E per sicurezza anche il camino veniva chiuso con un setaccio.

Una consolidata tradizione riconosce in due delle streghe nientemeno che Erodiade e Salomé, coloro che convinsero Erode Antipa a far decapitare il Battista; per questo sarebbero state condannate a vagare per il mondo su una scopa, chiamando le altre Streghe presso il Laterano proprio in occasione cella commemorazione del Santo.
L’inizio della festa, fino al 1870, era segnalato, al tramonto, dalle artiglierie di Castel Sant’Angelo, che sparando a salve e in modo festoso segnalavano ai Romani che era giunto il momento di recarsi verso i prati che, all’epoca, caratterizzavano la zona intorno alla Basilica.
La notte di San Giovanni aveva poi anche un importante ruolo “sociale”, in quanto era un momento perfetto di incontro e un’occasione, per le giovani coppie aiutate dalla confusione e dal buio, per passare un po’ di tempo insieme, romanticamente stesi sull’erba. Generalmente l’area intorno alla Basilica di Santa Croce era quella prescelta per questi piccoli idilli. Questa notte poi, scambiarsi fiori tra persone di sesso diverso assumeva un’importanza e un significato assoluti, creando un vincolo eterno, quello del comparato o comparatico (anche se in qualche caso il rapporto prendeva una piega meno platonica…), tramite il quale tra il compare e la comare veniva sancito ufficialmente un rapporto di fiducia reciproca.
La conclusione della festa, le cui origini hanno radici lontanissime, da ricercarsi in antichi riti legati al Solstizio e praticati per l’inizio dell’estate (a cui poi il cristianesimo sovrappose, come era consuetudine, la festività religiosa cristiana), si aveva la mattina del 24, quando all’alba il papa, annunciato da altri colpi di cannone, giungeva “in treno di mezza gala” a celebrare la messa nella Basilica di San Giovanni, e non prima che, secondo la tradizione, avesse elargito dalla Loggia, gettandole tra la folla scatenata, monete d’oro e d’argento alla popolazione.
Tutta nottata era ovviamente scandita da musica, canti, balli e improvvisazioni canore, con tarantelle, saltarelli, stornelli a volontà, finché nel 1891 non si arrivó ad organizzare un vero e proprio concorso della “canzonetta romana” , che divenne subito molto popolare: il primo anno, in pieno tema con la serata, a vincere fu “Le streghe” (clicca per ascoltare), con versi di Nino Ilari, musica di Alipio Calzelli e interpretata da un esordiente Leopoldo Fregoli. Altre magnifiche canzoni presentate al concorso furono, solo per citare qualche esempio, “Nina si voi dormite” (1901), “Barcarolo Romano” (1926) e “Affaccete Nunziata” (1893).
Fino alla Prima Guerra Mondiale la manifestazione continuò, raccogliendo sempre un grande consenso. Tra le due guerre riprese, ma come festa del Dopolavoro; successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, si è tentato più volte di riportala all’antico splendore, ma sempre senza ottenere i risultati sperati: ormai la festa sembra non riuscire a ritrovare la poesia, la meraviglia e l’entusiasmo che la caratterizzavano.
Godiamoci insieme la narrazione che di questa notte particolarmente amata dai Romani ci ha lasciato Giggi Zanazzo (poeta dialettale di fine Ottocento – inizi Novecento e grande studioso delle tradizioni del popolo romano):

“La viggija de San Giuvanni, s’ausa la notte d’annà come sapete, a San Giuvanni Latterano a pregà er Santo e a magnà le lumache in de l’osterie e in de le baracche che se fanno appositamente pe’ quela notte. For de la Porta, verso la salita de li Spiriti, c’era parecchi anni fa, l’osteria de le Streghe, indove quela notte ce s’annava a cena. A tempo mio, veramente, nun se faceva tutta ‘sta gran babbilogna che se fa adesso. Ce s’annava co le torce accese e co’ le lanterne, perché era scuro scuro, allora, pe’ divuzzione davero e pe’ vedè le streghe. Come se faceva pe’ vederle? Uno se portava un bastone fatto in cima a furcina [cioè biforcuto n.d.r.], e quanno stava sur posto, metteva er barbozzo [mento] drento a la furcina, e in quer modo poteva vedè benissimo tutte le streghe che passaveno laggiù verso Santa Croce in Gerusalemme, e verso la salita de li Spiriti. Pe’ scongiuralle, bastava de tienè in mano uno scopijo [scopetta di saggina], un capodajo e la spighetta cor garofoletto. S’intenne che prima d’uscì da casa, de fora de la porta, ce se metteva la scopa e er barattolo der sale. Accusì si una strega ce voleva entrà nu’ lo poteva, si prima che sonasse mezzanotte nun contava tutti li zeppi de la scopa e tutte le vaghe der sale. Cosa che benanche strega, nun je poteva ariuscì; perchè, si se sbajava a contà, aveva d’aricomincià da capo. Pe’ nun faccele poi avvicinà pe’ gnente, bastava mette su la porta de casa du’ scope messe in croce. Come la strega vedeva la croce, er fugge je serviva pe’ companatico! Presempio, chi aveva pavura [paura] che la strega j’entrassi a casa da la cappa der cammino [camino], metteva le molle e la paletta in croce puro là, oppuramente l’atturava cor setaccio de la farina.
Un passo addietro. Er giorno se mannava in parocchia a pijà una boccia d’acqua santa fatta da poco, perché l’acqua santa stantìa nun è piú bona; e prima d’uscì da casa o d’annassene a letto, ce se benediveno li letti, la porta de casa e la casa. Prima d’addormisse se diceva er doppio credo, ossia ogni parola der credo si repricava du’ vorte: io credo, io credo, in Dio padre, in Dio padre, ecc., e accusì puro se faceva de l’antre orazzioni. Nun c’è antra cosa come er doppio credo pe’ tienè lontane le streghe! Ammalappena, poi se faceva ggiorno, er cannone de Castel Sant’Angelo, che aveva incominciato a sparà da la viggija, sparava diversi antri colpi, e allora er Papa, in carozza de gala, accompagnato da li cardinali e dar Senatore de Roma, annava a pontificà, ossia a di’ mmessa in de la chiesa. Detta messa, montava su la loggia che dà su la piazza de San Giuvanni Latterano, dava la benedizzione e poi buttava una manciata de monete d’oro e d’argento. Quando er giorno de San Giuvanni sorge er sole, s’arza ballando. A tempo mio, er giorno de San Giuvanni, usava de fa’ un pranzo fra li parenti, ossia fra compari e commari pe’ fa’ in modo che si c’era un po’ de ruggine fra di loro s’arifacesse pace co’ ‘na bona magnata de lumache” (Giggi Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma).

Articoli correlati:

La rugiada di San Giovanni

La rugiada di San Giovanni

rugiada-300x225Sai che a Roma… una volta si raccoglieva la Rugiada di San Giovanni?
La festa di San Giovanni (24 giugno), oltre che alla celebre Notte delle Streghe, è legata anche ad altre tradizioni popolari. In particolare molto famosa era la Rugiada di San Giovanni, raccolta proprio la notte della festa del santo.

Per la tradizione cristiana la rugiada di San Giovanni rappresenta le lacrime che Salomè versò dopo essersi pentita di aver provocato la decapitazione del Battista. Durante questa crisi di rimorso, e mentre piangendo la donna copriva di baci la testa mozzata del Santo, un fortissimo vento iniziò a uscire dalla bocca del Battista, fino a spingere in aria Salomè, condannandola a vagare in aria per espiare la sua colpa.

Una versione leggermente differente e più “pulp” ci racconta di una Salomè che, vistasi consegnare la testa di San Giovanni, spinta da un istinto macabro e voluttuoso, si sarebbe chinata a baciarne le labbra esangui. In entrambe le storie comunque, il vento fa finire la regina per aria! Solo che in questa seconda versione, le lacrime potrebbero essere viste, più che come un segno di pentimento (del quale non c’è traccia…), come lacrime di disperazione per il destino che la attende!

La rugiada sembra avere preziose virtù in diversi ambiti: aiuta a realizzare i propri desideri, per cui se un oggetto che rappresenta il nostro desiderio, o la stessa persona desiderata, si coprono della rugiada di San Giovanni, il gioco è fatto! Alla rugiada di San Giovanni viene poi attribuito il potere (fortunatamente oggi non più considerato di grande utilità) di pulire i panni dalle pulci, e anche quello di vivere un anno in buona salute.

Ecco spiegato perché in tutta Italia era tradizione raccogliere la rugiada della notte di San Giovanni. Per procurarsi questo liquido miracoloso si usava stendere un panno sull’erba, per strizzarlo la mattina successiva raccogliendo il prezioso liquido, oppure si raccoglievano le gocce utilizzando un telo impermeabile con un foro centrale: sotto il foro, e possibilmente all’interno di una buca, veniva posto un recipiente in cui andavano a confluire le gocce di rugiada che scivolavano dalla superficie del telo.
Per farsi bagnare dalla rugiada, poi, le persone trascorrevano la notte all’aperto, sui prati.

E dalle proprietà benefiche della rugiada, ha tratto anche origine il detto popolare: “Manco la rugiada de San Giovanni je dà de barba!”, usato in riferimento a qualcuno che non si può più guarire. L’espressione “dare di barba” si riferiva all’usanza di tirare la barba a qualcuno per schernirlo, ma è qui usata anche nel senso di non avere efficacia, non scucire un baffo.

Tu conosci altre tradizioni legate alla festa di San Giovanni?

Articoli correlati:

La Notte delle Streghe (San Giovanni) – tra il 23 e il 24 giugno

 

I 15 forti di Roma

Posizionamento dei fortilizi di Roma

Forti di Roma. Foto da made-in-rome.com

 
Sai che a Roma… esistono ben 15 forti realizzati alla fine dell’Ottocento?
 
Dopo l’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870) infatti, si decise di rinforzare le difese della città, fino ad allora ancora affidate, per lo più, alla cinta muraria dell’imperatore Aureliano (III sec. d.C.).
Al termine di un lungo iter burocratico, nel 1877 si decise di costituire attorno alla città un “campo trincerato” composto da 15 forti (all’inizio ne furono previsti 10) e 4 batterie (fortificazioni in cui venivano collocate le bocche da fuoco e le artiglierie, come obici e mortai), oggi ormai totalmente inglobati nel tessuto urbano.
 
I fortilizi sono distanti tra loro 2-3 km, e sono 4-5 km più esterni della vecchia cinta aureliana, coprendo una circonferenza di circa 40 km. Sono disposti presso i maggiori accessi alla città, in corrispondenza, quindi, con le antiche vie consolari romane, o su alture intermedie. Le batterie invece (pensa all’attuale uscita della tangenziale “Batteria Nomentana” o a via della Batteria di Porta Furba!) possono trovarsi in posizione leggermente arretrata rispetto ai forti.
Forte Bravetta visto dall'alto

Forte Bravetta

Temendo un attacco francese dalla costa, i primi 7 forti realizzati a partire dal 1877 furono Appia Antica, Monte Mario, Casal Braschi, Boccea, Aurelia Antica, Bravetta e Portuense (tutti, tranne Appia Antica, sulla riva destra del Tevere).

Forte Prenestina
A seguire, con l’arrivo di nuovi fondi (1879), sorsero i forti Ardeatina, Casilina, Prenestina, Tiburtina e Pietralata, tutti sulla sinistra del Tevere.
Infine, dal 1881 si costruirono i forti Ostiense, Monte Antenne e Trionfale.
Forte Antenne visto dall'alto

Forte Antenne

Dal 1882 iniziò anche la realizzazione delle batterie a pianta esagonale Appia Pignatelli, Nomentana e Porta Furba, che si aggiungevano alla Batteria Tevere, sorta ai piedi di Monte Mario, sulla riva destra del fiume.
 
Il campo trincerato di Roma fu realizzato in soli 5 anni, con una spesa di circa 23 milioni di lire, e ovviamente non mancarono polemiche e critiche in merito sia alla spesa che alla struttura stessa.
Le previste vie di collegamento tra i forti, anche sotterranee, non furono invece mai compiute.
 

Il Mosè ridicolo e la fontana di piazza San Bernardo

mosè ridicolo. Fontana del Mosè in piazza San Bernardo a Roma
Sai che a Roma… c’è un “Mosè ridicolo“?
 
Questo è infatti il soprannome che i romani hanno affibbiato alla statua di Mosè collocata nella nicchia centrale della fontana di piazza San Bernardo. La fontana è la mostra terminale dell’Acqua Felice, acquedotto che il papa Sisto V (1585-90, al secolo Felice Peretti) aveva realizzato ripristinando l’antica Acqua Alessandrina.
 
La fontana dell’Acqua Felice, o del Mosè, opera di Domenico e Giovanni Fontana, vede reimpiegate molte “anticaglie di Termini”, cioè delle Terme di Diocleziano. La statua raffigurante Mosè che indica le acque scaturite miracolosamente dalla roccia è invece opera di Leonardo Sormani e Prospero Antichi detto il Bresciano. Essa però risulta essere tozza e sproporzionata,con un panneggio pesante e tozzo, tanto da suscitare subito lo sdegno dei Romani, che la ribattezzarono il “Mosè ridicolo”. Nemmeno a dirlo, la statua fu presto oggetto di numerose pasquinate, tra cui un paio, famosissime, recitano:
Fontana del Mosè in piazza San Bernardo a Roma con la statua del "Mosè ridicolo"
1) Guardo con occhio torvo l’acqua che sgorga ai pié pensando inorridito
al danno che a lui fe’ uno scultor stordito.
 
2) È buona l’acqua fresca e la fontana è bella
Con quel mostro di sopra però non è più quella
O tu, Sisto, che tanto tieni alla tua parola
Il nuovo Michelangelo impicca per la gola.
 
Oltre alla questione puramente estetica poi, la statua contiene anche un errore storico: Mosè infatti tiene nella mano sinistra le Tavole della Legge, ma all’epoca del miracolo delle acque egli non le aveva ancora ricevute.
Insomma, un monumento non proprio riuscito, si direbbe, eppure… è lì da più di 4 secoli!
 
I 4 leoni che ornano le vasche non sono quelli originali. Quando la fontana fu costruita infatti, furono impiegati 4 leoni antichi che venivano dal Pantheon e dal Laterano. Erano realizzati in porfido e marmo, ma nel 1850 furono sostituiti con quelli visibili oggi, scolpiti in marmo bardiglio da Adamo Tadolini.